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[Qualche osservazione a margine di “La valutazione che educa” di Cristiano Corsini, di cui vorrei fare una recensione.]

Immaginiamo uno studente che abbia voti eccellenti in tutte le discipline. Può essere che abbia un interesse reale per tutte le discipline e per tutti gli argomenti affrontati in tutte le discipline. Non è impossibile; però è raro. Perfino il docente, che si suppone sia appassionato della disciplina che insegna, ammetterà, se è onesto, di non provare la stessa passione per tutti gli argomenti che propone agli studenti. E forse su tutti non è ugualmente preparato; e su alcuni forse le sue lezioni, se fossero valutate numericamente, non raggiungerebbero un cinque.
Possiamo ragionevolmente credere, dunque, che siano pochi gli studenti con un interesse così ampio. Molti di meno di quelli che raggiungono buoni voti in tutte le discipline. Che succede in questo caso? Come fa il nostro studente a prendere comunque otto o nove in tutte le discipline? Semplice: studia anche in mancanza di interesse. Se si dovesse definire la sua competenza, la si potrebbe descrivere così: svolgere qualsiasi compito assegnato, anche in mancanza di interesse, facendo esattamente ciò che viene richiesto. È questo, e non altro, che misura una valutazione eccellente in tutte le discipline. Di che competenza si tratta? La scuola respinge con sdegno l’idea di essere il luogo in cui si prepara al mondo del lavoro. Essa pretende di essere, invece, palestra di pensiero critico. Ma questa competenza è invece esattamente ciò di cui ha bisogno il mondo del lavoro. A dire il vero non tutto. Si pensa troppo male del mondo del lavoro se si ritiene che ovunque servano questi esecutori assoluti, indifferenti al pensiero e all’interesse. Servono tuttavia in alcuni contesti. È questa competenza che si richiede allo stesso docente, ad esempio, quando gli si impone di compilare documenti burocratici assolutamente idioti, inutili, folli.
Dietro una eccellenza diffusa c’è dunque un approccio finto al sapere. Forse perfino una assoluta indifferenza ad esso. C’è un atteggiamento puramente procedurale. La vocazione ad essere, per dirla con Michelstaedter, “un degno braccio irresponsabile della società”. L’esatto contrario del mitico pensiero critico.
Quando prendo una classe nuova spiego agli studenti (poi mi toccherà spiegarlo ai genitori; rinuncio a spiegarlo ai colleghi) che considero desiderabile una curva dei voti altalenante: un 8 seguito da un 6, magari da un 5; e poi ancora un 7. Perché, spiego, è così che funzioniamo. È così che funziona il nostro interesse, che non è ugualmente attratto da tutto, e che non può essere messo fuori gioco in una faccenda che ha a che fare col piacere, come lo studio; ed è così che funzioniamo noi in generale: perché a volte siamo stanchi, o presi da altro, o annoiati. Non siamo macchine che sfornano prestazioni eccellenti. Gli studenti annuiscono, poi qualcuno alza la mano. E mi fa notare che è vero, è verissimo. Ma la società chiede i voti alti. Lasciamo perdere i genitori, con quelli ci si ragiona. Ma le università, ad esempio, tengono gran conto del voto del diploma. E non è che gli si può dire che il professore non aveva grande simpatia per la linea fissa dell’8 o del 9.

@naciketas
Un aspetto rilevante, spesso ignorato a scuola ma che diventa evidente in professioni più creative come la programmazione informatica, è che ciò che NON sappiamo determina alcuni spazi di libertà del nostro agire al pari di ciò che sappiamo.

Talvolta un programmatore con solide basi ma scarsa esperienza riesce a porre domande sconcertanti, mettendo in discussione le soluzioni più in voga in un dato momento.

In altri termini, ciò che non sappiamo ci rende unici ed imprevedibili (e dunque liberi, se non può essere sfruttato da terzi contro di noi) quanto ciò che sappiamo.

D'altro canto, uno studente che abbia solo 9 e 10 non sa tutto: ha lacune enormi di cui non può avere consapevolezza che derivano dai limiti strutturali della sua mente, del tempo che può dedicare allo studio, del programma scolastico etc...

Quanto vale la consapevolezza di non sapere?

Quanto vale la consapevolezza che anche gli altri non sanno?

Domanda @naciketas: perché rinunci a spiegarlo ai colleghi?

@Shamar Nella migliore delle ipotesi, ti dicono che lo fanno già. E naturalmente non è vero.

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