Ho perso mio padre tre giorni fa. Ho pianto come un bambino tenendogli le mani un ultima volta. Le stesse mani che mi hanno tenuto nel gioco da piccolo, le stesse che una volta cresciuto ho stretto in campagna scaricando insieme pesi troppo grandi da affrontare soli, imparando che il lavoro può essere gioco, una canzone di giubilo da cantare insieme e non solo maledetta fatica. Un uomo semplice, dalla generosità, gentilezza e forza straordinarie. Ma anche testardo e ostinato come pochi, per questo ci siamo litigati ferocemente molte volte, salvo poi volerci più bene di prima. Mi rendo conto di aver imparato molto anche da quei conflitti, che si trattasse di prendere e sostenere una posizione o di riconoscere di aver detto o fatto stupidaggini.
Per quanto mi sforzi di vedere nella sua dipartita un evento che celebra la vita - perché il morire è un evento che resta tutto interno alla vita - una vita arrivata al suo pieno compimento, la perdita dell'altro amato resta un evento che ci lascia sospesi tra mancanza e domanda, davvero tanto da sostenere e ancor di più da portare alla parola. L'unica cosa che posso dire, o provare almeno a indicare, sono le vertigini che mi dà oggi affacciarmi nel vuoto della sua assenza. La consapevolezza del pieno compimento della sua vita mi dà però anche una rinnovata forza nel coltivare i legami con le persone che amo.
Quando respiriamo, noi non respiriamo solo per sostenere la nostra vita, respiriamo per sostenere la vita di tutti. Questo ci ricorda l'assenza dell'altro andato (gatāsun).