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Questa foto, scattata il 4 maggio 1838, è la prima immagine in cui una persona è stata fermata da una fotocamera. Le fotocamere precedenti al 1838 richiedevano uno scatto con esposizione di 8 ore per fermare l’immagine, dunque potevano catturare quasi solo panorami e vaste aree (foresta, deserto, ecc.). Si poteva scattare una foto di oggetti statici, ma non si poteva scattare un oggetto in movimento.
Nel 1838, Louis Daguerre inventò una macchina fotografica grazie alla quale il tempo di esposizione fu ridotto da 8 ore a 5 minuti. Quando scattò questa foto di Parigi dalla sua finestra, in quel momento la strada era piena di cavalli, carrozze e persone in movimento ma, a causa del tempo di esposizione, non è riuscito a fermarli nella foto. Nella foto invece è riuscito a fermare l’immagine di due persone in un punto particolare della strada. Uno di loro era un uomo che si era fermato per qualche minuto per lucidarsi le scarpe, mentre l’altro era il calzolaio che gli stava lucidando le scarpe. Queste due persone sono così diventate i primi esseri umani della storia ad essere fermati in una immagine da una telecamera.
L’immagine è stata chiamata Boulevard du Temple.

Il miglior ristorante, dall’inizio dell’universo conosciuto ad oggi 😂

Stamane ho accompagnato mia zia in ospedale. In attesa di disinfettare l’impianto di accesso venoso per le chemioterapie, la sala di attesa è piena di persone, di ogni età. Ciascuno porta nel cuore la speranza per sé e per gli altri.
L’attesa apre il tempo e i modi per scambiarsi sorrisi. Un corpo che tace lascia respirare il sogno e l’immaginario.

—[kara- nīyametta sutta]

Commovente ❤️
L’Alzheimer nella esperienza artistica del pittore Utermohlen che dal 1996 al 2000 decise di iniziare a produrre autoritratti per descrivere in maniera artistica cosa avrebbe vissuto con la patologia neurodegenerativa subito dopo aver ricevuto la diagnosi.

Chi si ricorda questo libro?
Chi lo ha letto?
Che fine ha fatto tutta la questione?

«Presto non ci saranno altro che degli zombies autocomunicanti, col solo relè ombelicale del ritorno immagine - avatar elettronici delle ombre defunte che, al di là dello Styx e della morte, errano ciascuna da sola e passano il tempo a raccontarsi perpetuamente la propria storia.»
—[Jean Baudrillard, Patafisica e arte del vedere, pag. 46]

Un film stupendo.

«…se muoiono i loro figli, noi la chiamiamo vittoria e brindiamo con la birra, se muoiono i nostri figli loro brindano con il vino e noi la chiamiamo sconfitta…»

LLMs: miliardi di parametri, calcoli, correlazioni tra una una sterminata collezione di parole e frasi…
E poi c’è Agamben che riesce a scrivere riflettendo su un solo caso: il vocativo. Una singola parola capace di mettere in risonanza una infinità di situazioni di vita, senso e significato.

«Col vocativo ci rivolgiamo a coloro che amiamo o odiamo, col vocativo invochiamo, preghiamo e bestemmiamo, col vocativo salutiamo e prendiamo commiato, esaltiamo e compiangiamo, lodiamo e insultiamo. Col vocativo cominciano le lettere e i messaggi, carezziamo gli animali e i bambini.»

«Nell’universo in espansione, le galassie piú remote si allontanano da noi a una velocità cosí forte, che la loro luce non riesce a raggiungerci. Quel che percepiamo come il buio del cielo, è questa luce che viaggia velocissima verso di noi e tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce.

Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare.»

—[Giorgio Agamben, La mente sgombra - Einaudi]

«Quando Heidegger chiamò il linguaggio “la casa dell’essere”, stava preparando una meditazione sul linguaggio come organon generale della trasposizione. Con esso gli uomini navigano negli spazi della similitudine. Il linguaggio non deve solo imitare il mondo che ha vicino, ordinando cose, persone e qualità secondo nomi fidati, e inserendoli poi in storie, comparazioni, e serie; ciò che è decisivo è che il linguaggio “avvicina” l’estraneo e lo spaesante includendoli in una sfera abitabile, comprensibile, foderata di empatia. Questa sfera rende vivibile per l’uomo l’essere fuori nel mondo aperto, traducendo l’ek-stasi in una en-stasi. La “tendenza alla vicinanza” si impone nel discorso umano sin dalla prima parola; il linguaggio è già sempre la poesia della vicinanza. Esso assimila il dissimile al simile, come accade in modo estremamente chiaro nella formazione delle metafore. Viceversa si potrebbe anche dire che il linguaggio traspone la en-stasi dell’abituale, “fuori” nella ek-stasi dell’inabituale. Il suo compito essenziale consiste, come ha notato Heidegger, nel rendere abitabile l’ente nella sua totalità, o forse, dovremmo dire, consisteva in questo, poiché certo non si può misconoscere che in un mondo tecnico dove sono entrate in azione altre tecniche di avvicinamento, il linguaggio è sempre più esageratamente gravato da questo compito: il costruire testi segue ora vie libere da trasposizioni e prive di metafore. Il linguaggio dunque è, o era, il mezzo generale per fare amicizia con il mondo, così com’è, o era, l’agente della trasposizione di ciò che è domestico in ciò che non lo è.»

—[Peter Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger]

Un lavoro davvero immenso il testo curato da Carmine Di Martino. Attraverso i diversi capitoli l’opera mette in luce la rilevanza e l’importanza del pensiero di Heidegger rispetto alle problematiche più attuali.
Uno dopo l’altro i contributi mettono a tema le trasformazioni sociali intrecciate con il continuo rapido sviluppo di tecnologie che ridefiniscono i confini tra nazioni e culture costringendoci a ripensare modi e forme della esistenza umana, individuale e collettiva.
La tecnologia globalizza i mercati, i costumi, lo scambio di informazioni e i flussi economici ma – ci ricorda Heidegger – rivoluziona anche il modo in cui ci relazioniamo con i corpi, con la vita e con la terra, introducendo nuove opportunità e, al tempo stesso, anche grandi pericoli.
Un “must-read” per chiunque desideri pensare alla radice presupposti e conseguenze delle trasformazioni imponenti elicitate dall’innovazione tecnologica che stiamo vivendo.

Tofu, quello artigianale, con soia bio e addensante Nigari…. e sai cosa mangi.

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